A nessuno piace perdere. Se poi la sconfitta arriva a sorpresa e contro ogni pronostico, la delusione è ancora più bruciante. Ma per quanto si possa prenderla male, è difficile arrivare al livello con cui i brasiliani incassarono il cosiddetto Maracanazo, la disfatta del Brasile contro l’Uruguay nei mondiali di calcio del 1950. Al Maracanã di Rio de Janeiro, per giunta. Nel tempio del calcio carioca. La vicenda è entrata nella storia del calcio e provocò un trauma profondo nell’opinione pubblica brasiliana.
Il campionato mondiale del 1950 fu il primo dopo la pausa forzata dovuta alla guerra. Si decise di disputarlo in Brasile, paese dove c’era ottimismo sia dal punto di vista economico che strettamente calcistico: nel 1949 la Seleçao aveva vinto la Coppa America annichilendo in finale il Paraguay per 7-0. Il tasso tecnico dei giocatori era molto alto grazie al portiere Barbosa, a Friaça e al trio di attaccanti Zizinho, Jair e Ademir. In panchina sedeva l’esperto Flávio Costa.
Il Brasile, una corazzata apparentemente imbattibile
La formula del mondiale prevedeva quattro gironi composti da altrettante squadre ma Scozia, Turchia e India diedero forfait, quest’ultima perché i giocatori asiatici pretendevano di giocare a piedi nudi. Così ci furono due gironi da quattro squadre, uno da tre e uno da due. Le prime classificate avrebbero formato un girone di quattro squadre che si sarebbe conteso la coppa. L’Italia, ancora traumatizzata dal disastro di Superga, disputò un pessimo mondiale e fu subito eliminata così come i maestri dell’Inghilterra che persero clamorosamente contro gli Stati Uniti per 1-0 in quello che è stato chiamato “il miracolo di Belo Horizonte”.
Il torneo sembrava destinato ad essere una passerella trionfale per i padroni di casa che sconfiggevano gli avversari con una facilità disarmante. Al girone finale parteciparono Brasile, Uruguay, Svezia e Spagna. Al Maracanã i carioca demolirono la Svezia per 7-1 con quattro goal di Ademir e la Spagna per 6-1. L’Uruguay invece faticò a pareggiare contro gli iberici e riuscì a battere la Svezia per 2 a 1 grazie alla rete di Miguez all’85°. Alla vigilia dell’ultima giornata la Seleçao era a punteggio pieno con 13 gol fatti e 2 subiti, mentre l’Uruguay era due punti dietro e, vincendo lo scontro diretto, avrebbe potuto sorpassarli grazie alla classifica avulsa. Al Brasile bastava un semplice pareggio, ma tutti si aspettavano una goleada.
Eppure alla Celeste i giocatori tecnici non mancavano: Obdulio Varela, il portiere del Peñarol Máspoli, il difensore Gambetta, il brillante centrocampista Schiaffino, Rodríguez Andrade e infine gli attaccanti Ghiggia e Míguez. Ma in Brasile nessuno sembrava preoccupato: le strade delle principali metropoli erano invase dai caroselli, furono vendute oltre migliaia di magliette con la scritta “Brasil campeão 1950” e alla vigilia della gara la federazione brasiliana consegnò ai giocatori un orologio con l’incisione “ai campioni del mondo”. I principali quotidiani del paese erano sulla stessa lunghezza d’onda, con titoli che inneggiavano esplicitamente alla vittoria.
Il Maracanazo
Il giorno della partita l’atmosfera era da brividi. Il Maracanà era affollato da duecentomila spettatori di cui appena un centinaio uruguagi. Prima della gara il prefetto di Brasilia prese il microfono dichiarando che salutava i giocatori del Brasile come i campioni del mondo. Per dirla con le parole del presidente FIFA Jules Rimet, “era tutto previsto, tranne il trionfo dell'Uruguay.” Gli stessi giocatori e dirigenti uruguagi sembravano rassegnati, già sconfitti. Con una sola eccezione: il capitano Obdulio Varela che, cercando di caricare i compagni negli spogliatoi, gridò che “quelli là fuori non esistono”.
Nel primo tempo il Brasile, schierato con il modulo WM, attaccò con continuità ma senza andare a segno. Il pareggio era sufficiente per portarsi a casa la coppa, ma la voglia di stravincere era ben radicata nei giocatori e nel pubblico. Negli spogliatoi Ghiggia disse a Pérez di procedere con la celebre “tua-mia”, lo scambio in velocità che li aveva resi famosi. Ma nella ripresa i carioca segnarono dopo appena 78 secondi: cross di Ademir per Friaça che mise la sfera alle spalle di Máspoli con un preciso diagonale. Varela capì che la squadra era nel pallone e se il gioco fosse ripreso subito, i brasiliani avrebbero dilagato. Allora prese il pallone e si diresse verso il guardalinee protestando per un inesistente fuorigioco al fine di far sbollire l’entusiasmo degli avversari.
La mossa si dimostrò decisiva: la Celeste non si disunì e continuò a giocare con ordine. Al minuto 66 Ghiggia, dopo una delle sue celebri sgroppate sulla fascia sinistra, passò a Schiaffino che insaccò. Il Brasile continuò ad attaccare e al 79° avvenne l’imponderabile: Pérez servì Ghiggia che si apprestò a crossare al centro dove c’erano tre biancocelesti. Barbosa accennò l’uscita ma Ghiggia fu abile nel calciare direttamente nella porta sguarnita. Due a uno per l'Uruguay. Sul Maracanã cadde il silenzio più assoluto. Nei restanti dieci minuti i brasiliani attaccarono disordinatamente ma il risultato non cambiò.
Quando l’arbitro George Reader fischiò la fine e l’Uruguay vinse il campionato del mondo, l’atmosfera era a dir poco surreale. Sugli spalti si verificarono decine di infarti e un paio di suicidi. La sontuosa cerimonia di premiazione con la guardia d’onore non ebbe luogo e il discorso che Rimet aveva scritto in portoghese per omaggiare il Brasile non fu mai pronunciato. Alla fine, nella confusione, il presidente FIFA riuscì a trovare Varela e a consegnargli il trofeo stringendogli la mano, senza dirgli una sola parola. I giocatori di entrambe le squadre erano in lacrime: i brasiliani per la delusione, gli uruguagi per la gioia e l’incredulità. Anni dopo Schiaffino ricordò di aver provato pena per la disperazione degli avversari.
La sera stessa, mentre il Brasile proclamava tre giorni di lutto nazionale, la nazionale uruguagia festeggiò in un hotel di Rio. L’indomani i giornali commentarono la sconfitta con toni apocalittici e lo scrittore Nelson Rodrigues definì il Maracanazo “la nostra Hiroshima”. Sul banco degli imputati salirono l’allenatore Flávio Costa e soprattutto il portiere Barbosa, colpevole dell’uscita avventata sul gol di Ghiggia, che non venne mai perdonato. La nazionale brasiliana non disputò più gare ufficiali per quasi due anni e la federazione decise di cambiare il colore della divisa da bianca ad azzurra. Solo nel 1954 avrebbe assunto l’attuale verdeoro. Ghiggia, l’eroe del Maracanazo, disse che soltanto tre persone erano riuscite a zittire il Maracanã: Frank Sinatra, papa Giovanni Paolo II e lui. Se ne è andato il 16 luglio del 2015, esattamente sessantacinque anni dopo la storica impresa.